La miglior motivazione per dedicare questo nostro Istituto a Dante Livio Bianco potrebbe essere il sempliceincipit che Alessandro Galante Garrone gli dedica nel suo I miei maggiori:
«A fianco di Parri, l'amico suo e mio Livio Bianco. Grande avvocato, partigiano combattente, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà del Piemonte, antifascista cresciuto nel culto di Piero Gobetti e di Carlo Rosselli, alpinista provetto, morì per tragica fatalità il 12 luglio 1953 durante un'ascensione. Aveva solo pochi mesi più di me. Ma per me fu sempre un capocordata, non solo sulle pareti delle sue montagne cuneesi: una guida fraterna e sicura. Per questo lo considero come l'ultimo dei miei "maggiori": il più giovane e il più caro.»
Dunque, 56 anni fa, moriva in una disgrazia di montagna Dante Livio Bianco. Aveva 44 anni, essendo nato il 19 maggio 1909, e moriva su quelle Alpi Marittime che aveva tanto amato e aveva percorso, da grande alpinista, in lungo e in largo, in estate e in inverno.
Nella sua breve vita Livio aveva tracciato un itinerario compiuto, raggiunto una "pienezza umana" , una "splendente maturità" e lasciato una traccia indelebile del suo valore nella lotta partigiana, nella professione di avvocato, nell' impegno pubblico. Tutto all'insegna dell'eticità e della moralità più spiccate e di un gobettismo rigoroso.
Era figlio di una di quelle famiglie borghesi di umili origini e di altrettanto intelligenti e caparbie volontà realizzatrici. Il padre, un sarto valdierese emigrato a Cannes, aveva fatto una discreta fortuna e si era perfettamente inserito nell'ambiente culturale franco-italiano della Costa Azzurra, diventando anche presidente della locale "Dante Alighieri", da cui il nome Dante al primogenito. Gioacchino Bianco era poi morto improvvisamente nel 1918, lasciando una vedova giovane e due figli, Livio di 9 anni e Alberto di pochi mesi. L'energia della madre, Prosperina Sartore, e l'impegno solidale della cerchia allargata dei parenti, avevano permesso di allevare i due figli e di educarli con severità fino alla laurea.
Livio aveva frequentato quella facoltà di Giurisprudenza di Torino ove insegnarono maestri di una intera generazione: Luigi Einaudi, Gioele Solari, Francesco Ruffini e anche il giovanissimo Alessandro Passerin d'Entreves. E' questo nucleo di professori, assieme all'ambiente torinese, fresco erede dei grandissimi Antonio Gramsci e soprattutto (nel nostro caso) di Piero Gobetti, a forgiare una schiera di allievi di elevata qualità morale ed intellettuale. Si trattava, solo per elencarne alcuni, di Mario Einaudi, di Renato Treves, di Mario Andreis, di Franco Antonicelli, di Aldo Garosci e in seguito, di Norberto Bobbio, dei fratelli Alessandro e Carlo Galante Garrone, di Giorgio Agosti e dello stesso Livio.
Sono gli anni in cui il fascismo diventa totalitario, in cui abolisce ogni ombra di democrazia ed elimina l'eleggibilità del Parlamento. Siamo nel 1928, il senatore Ruffini vota contro quest'ultimo progetto di legge e, quando ritorna a fare lezione a Torino, gli studenti del GUF (Gruppo Universitario Fascista) lo contestano. Solo pochi studenti, in particolare gli stessi sopra citati, tra cui Livio, il cugino Aldo Quaranta e l'altro cuneese Modesto Soleri figlio dell'ex ministro Marcello, si levano a sua difesa. E', per il momento, un episodio. Un rivolo, un sussulto di dignità che andrà crescendo in Livio negli anni seguenti quando diventa avvocato nello studio di Manlio Brosio. E quel rivolo si unirà ad altri rivoli. Quegli stessi allievi di quei maestri torinesi, anche loro coinvolti nella difesa del professor Ruffini, si ritroveranno. Gli stessi sentimenti, le stesse "sofferte esperienze del costume fascista, lo stesso odio contro le declamazioni e le infatuazioni, il disgusto per ogni dilettantismo, per ogni conformismo, per ogni compromissione."
L'inizio della guerra fa emergere l'opposizione di questa generazione di intellettuali torinesi, cementa amicizie, unisce gruppi antifascisti e promuove l'engagement senza se e senza ma nella guerra partigiana.
Dante Livio Bianco "diventa un capo, un animatore, un combattente, un leader guerrigliero nel senso proprio del termine." Basterebbe, qui, rileggere qualche pagina del suo diario partigiano (custodito nel nostro archivio) per rendersi conto che Livio"fu uno degli interpreti più limpidi e consapevoli del contenuto ideologico della Resistenza, un lucido sostenitore, più e meglio di altri comandanti prestigiosi, - come
ebbe a scrivere Gastone Cottino - della assoluta priorità del momento politico su quello militare. Esercito di popolo, dovevano essere i partigiani; guerra tra ideologie non tra Stati, […] rivoluzione democratica e sociale era e doveva essere l'obiettivo finale della lotta."
Già nel vivo di quella lotta, Livio si rendeva conto di quale potesse essere però l'esito che si profilava all'orizzonte una volta deposte le armi: i pericoli di restaurazione di una Italia "fiacca, lenta e dubitosa". Come, d'altronde stava avvenendo in Francia mentre lui vi combatteva con la Brigata Carlo Rosselli. Non a caso aveva intitolato uno scritto su un giornale partigiano: Aria, luce, pulizia.
E, dopo il 25 aprile, si batteva ormai con le armi della politica e del diritto, per la "rivoluzione democratica" propugnata dal Partito d'Azione.
La speranza venne presto spenta. Piero Calamandrei, il grande avvocato che con Livio Bianco, non abbandonava il mondo partigiano e usava ora le armi del diritto per continuare la guerra per la civiltà, riteneva già un miracolo in quella situazione che la Repubblica avesse trionfato sulla Monarchia.
La scomparsa di Livio, in quel luglio del 1953, lasciò tutti basiti. Lo spiegava assai bene Augusto Monti in una lettera a Pinella, la carissima moglie compagna: «Siamo in molti, oggi, in molte parti d'Italia, a non darci pace per quel che è successo a Livio, incapaci ancora, a tratti, di credere che davvero sia capitato quel che ieri, aprendo il giornale, vi abbiamo letto come prima notizia. E non è superbia la mia - creda, signora Pinella - se affermo che a piangere più sconsolatamente di tutti sul caso del suo Livio sono io, io che sto scrivendo. Perché vede, signora, dei tanti amici miei - amici "correligionari" - di Livio io sono, forse senza forse, il più vecchio, e sono uno di quella generazione di padri cui è toccato in sorte di "seppellire i propri figli" come sconsolatamente disse - allora - Francesco Ruffini ricordando agli amici l'appena morto Piero Gobetti. Eh! Si: tanti figli sepolti da noi padri, da me: Gobetti, Renzo Giua, Leone Ginzburg; e poi Pavese; e adesso Livio Bianco […], la cui esistenza era diventata tanto più preziosa quanto più diminuiva il numero di quelle esistenze. Era una "riserva" Livio: quando mancò Duccio ci si consolò - si consolarono - dicendo: "c'è Bianco"; adesso, dopo la Liberazione, quando anno per anno si scopriva che tanti amici - troppi - esitavano, oscillavano, segnavano il passo pronti a scantonare, si diceva: "ma c'è Livio Bianco a tenerli in riga e a fargli capire la ragione"; quando, pensando al futuro, ad un futuro magari imminente, in cui secondo i propositi dei più risoluti i "valori della Resistenza" avrebbero dovuto essere difesi con i metodi del '43-'44-'45, era solo se si pensava a Livio che si capiva che queste non erano parole; lui diceva nulla, sorrideva con quel suo sorriso intelligente e sicuro, ed era come se promettesse: "sono qua".»
Nel giugno 1963 Ferruccio Parri scriveva: «Son dieci anni che è morto, e il suo viso chiaro ci guarda come ieri, un po' sorridente, un poco interrogativo, per un colloquio che si è brutalmente interrotto. Oggi che cosa ci diresti Livio? - e proseguiva - in questa melma di arrivismo parolaio, d'ipocrisia paludata, di opportunismo vendereccio, di ladrocinio sfrontato nel quale la società italiana si va impantanando?»
Cosa dovremmo dire, oggi, che siamo a cento anni dalla nascita di Dante Livio Bianco? Lui acquista sempre maggiore interesse e rilievo con il trascorrere del tempo e continua ad indicarci come una speranza e un impegno che non sono venuti meno, «quella Italia per la quale lui e i partigiani hanno combattuto: una Italia moderna, pulita, seria, fatta di uomini liberi, nemici della retorica e capaci di ideali».
Per questo, e per mille altri motivi che non si possono qui tutti elencare, vogliamo dedicare questo Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo a Dante Livio, il solo monumento che può pretendere da noi.
Michele Calandri
Cuneo, 17 ottobre 2009.
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